Cellebrite vs Signal: la surreale lotta tra David&Golia tech

Il giornalista Raffaele Angius, che segue con passione i meandri della cybersecurity, ci racconta in questa intervista come una delle massime aziende di analisi forensi, l’israeliana Cellebrite, sia stata ‘presa in giro’ dalla piccola ma reattiva Signal, app rivale di WhatsApp e Telegram

Se vi piacciono le spy story con hacker incappucciati, codici bucati e valigette smarrite, questa è davvero avvincente. Protagonisti, da una parte, Cellebrite,  notissima azienda di analisi forensi in grado di scardinare ogni tipo di software o quasi, che fornisce servizi a intelligence e polizie di mezzo mondo. Dall’altra, la piattaforma chat Signal, piccola e relativamente poco conosciuta rivale di Whatsapp e Telegram, molto fiera creatura di un esperto di sicurezza informatica..

La ‘disfifa ha inizio qualche mese fa, quando Cellebrite affermava di aver trovato ‘falle’ nella sicurezza di Signal, che è un’app open source per lo scambio di messaggi. Una notizia che ha fatto il giro del mondo, e che nasce da un ‘cortocircuito della comunicazione’, racconta Angius, innescato da una notizia della Bbc
>>>>>>>>(Raffaele Angius – giornalista Wired)<<<<<<<<<

Punta nel vivo, Signal ha negato di essere stata bucata, mentre Cellebrite ha fatto parziale marcia indietro.

Pochi mesi dopo, siamo a metà aprile di quest’anno,, scatta la vendetta. Con una sfida quasi surreale partita dal ‘ritrovamento’ di uno zaino misterioso contenente strumenti tecnologici dell’azienda israeliana.

Moxie Marlinspike, il fondatore di Signal, ha affermato che, grazie a quel materiale, sarebbe possibile far eseguire dei codici sugli scanner di Cellebrite semplicemente includendo un file in qualsiasi applicazione per cellulare collegata all’apparecchiatura dell’azienda. Le conseguenze potrebbero essere assai compromettenti per le analisi forensi.

Schermaglie a fini pubblicitari, hacker contro hacker o Davide contro Golia, una cosa è certa, ancora questa volta è Signal a capitalizzare e a guadagnare utenti, proprio come era successo mesi fa quando Whatsapp aveva annunciato modifiche nelle norme d’uso. La migrazione di nuovi adepti all’open source gratuito continua.

Celia Guimaraes @viperaviola

Coinbase e Wall Street: è tutto oro digitale quel che luccica?

Debutto ‘con il botto’ al Nasdaq per la piattaforma di scambio di criptovalute, ammesse nel ‘salotto buono’ della finanza più tradizionale. Il mercato globale delle valute digitali supera ormai il Pil italiano e c’è chi sostiene che saranno la divisa di scambio corrente della Gen Z. Ma non mancano le incognite

Coinbase Global Inc., la seconda più grande piattaforma di scambio di criptovalute degli Stati Uniti (la prima risulta essere Binance), debutta al Nasdaq e segna una pietra miliare nella storia delle valute virtuali: da tecnologia di nicchia ad asset mainstream.

E’ stata valutata a 381 dollari per azione, per un valore di mercato di 99,6 miliardi di dollari, in rialzo del 31,31% nel suo primo giorno di contrattazioni. Il titolo ha concluso la prima giornata scambi a 328,28 dollari.

Coinbase, fondata nel 2012, dichiara  56 milioni di utenti in tutto il mondo e circa 223 miliardi di dollari di asset, pari all’11,3% della quota di mercato delle criptovalute.

L’arrivo della piattaforma  sulla Borsa di New York (una novità sospesa tra operazione di marketing e innovazione tech) segna una svolta per le criptovalute, ammesse nel salotto buono della finanza tradizionale, che solo pochi anni fa le temeva o snobbava, secondo larga parte delle opinioni di investitori, analisti e autorità monetarie.

Saranno le criptovalute le monete di riferimento della Gen Z, la generazione che usa con disinvoltura strumenti digitali? Ce lo spiega il professor Ferdinando Ametrano, direttore scientifico del Crypto Asset Lab – Dipartimento Business and Law all’università Milano-Bicocca che in questa intervista ci parla del ruolo dei Big della Silicon Valley ma anche dei rischi che le app e servizi per investitori rappresentano in questo momento di ‘hype’:

Celia Guimaraes @viperaviola

Rinunciare alle tentazioni? Non senza un robot

Esistono macchine e strumenti digitali che ‘allontanano dal piacere’ e rafforzano la volontà, racconta Paolo Gallina, professore dell’Università di Trieste, autore di “Un robot per vincere le tentazioni”. Come funzionano – e soprattutto – con quali implicazioni etiche

Posso resistere a tutto tranne che alle tentazioni”.  La celebre frase di Oscar Wilde, scrittore, poeta, drammaturgo e saggista, nato a Dublino nel 1854 e morto a Parigi nel 1900, a soli 46 anni, è l’esempio di una ‘vittima’ delle proprie tentazioni – e della società retrograda dell’epoca.

A non riuscire a resistere alle tentazioni, però, oggi lo siamo un po’ tutti, sostiene il professor Paolo Gallina, dell’Università di Trieste.  E questo perché viviamo in un’epoca di sovrabbondanza di opportunità, di mezzi, di cibo. E per questo abbiamo aiuti esterni.

Sembra strano , ma uno dei primi ‘congegni’ della storia, inventati per obbligarci a rinunciare alle tentazioni è stata la sveglia. “Ma oggi – racconta Gallina – complice lo sviluppo tecnologico, ne esistono di molti tipi, come le applicazioni che monitorano l’attività fisica e ricordano quante volte a settimana si deve uscire per correre e rimettersi in forma: sono le ‘macchine anti-edonistiche‘, congegni studiati per combattere le tentazioni, evitare la soddisfazione di un piacere immediato”.


Le Mae servono proprio a spingerci verso motivazione e consapevolezza, con un espediente tecnologico – un robot, un dispositivo, un’app –  che vincola le persone alla decisione presa, sono gli elementi essenziali di questo processo.

Nel libro (Edizioni Dedalo), Paolo Gallina, che è professore ordinario di meccanica applicata alle macchine e robotica al Dipartimento di ingegneria e architettura dell’Università di Trieste, descrive la complessa interazione delle Mae, le macchine anti-edonistiche con la psicologia umana, combattuta tra istinti, forza di volontà, doveri e obblighi sociali.

Diventare virtuosi talvolta va oltre le nostre sole forze, sottolinea il professore: “In questo caso la tecnologia rafforza il proposito delle persone di liberarsi da un’abitudine di cui hanno perso il controllo”.

Un timer che ci consente l’apertura della porta del frigo in orari prestabiliti, un dispositivo che ci impedisce di mangiarsi le unghie, sono alcuni di questi aiuti esterni che la tecnologia ha reso più sofisticati, alo scopo di ‘allertarci’ in caso di comportamenti deviati.

Paolo Gallina studia il rapporto tra uomo e macchina e come la tecnologia sta cambiando l’esperienza e le dinamiche umane e interpersonali e sottolinea anche “i potenziali effetti collaterali della condivisione di dati personali: un eventuale insuccesso nel raggiungimento dell’obiettivo dichiarato infatti può esporre a commenti negativi e danneggiare la persona che si è esposta pubblicamente”. Servirà quindi un algoritmo per farci abbandonare i social network?

Celia Guimaraes @viperaviola

 

 

Primo Big, Lg abbandona gli smartphone

Era uno dei dieci produttori mondiali di smartphone, ancora popolare negli Stati Uniti dove i marchi cinesi non sfondano

 

Cede in Borsa a Seul il 2,52% Lg Electronics, subito dopo aver diffuso la notizia che smetterà di produrre smartphone a causa delle perdite del ramo d’azienda registrate negli ultimi cinque anni.

L’azienda tecnologica sudcoreana ha annunciato la chiusura della propria divisione di telefonia mobile a livello globale. “La decisione strategica di Lg di uscire dal settore della telefonia – si legge in una nota – permetterà all’azienda di focalizzare maggiori risorse in altre aree di crescita come i componenti dei veicoli elettrici, i dispositivi connessi, la smart home, la robotica, l’intelligenza artificiale e le soluzioni business insieme a piattaforme e servizi”.

E’ stato precisato che “gli smartphone Lg attualmente disponibili continueranno a essere venduti, così come restano garantiti l’assistenza ai clienti e gli aggiornamenti software per un certo periodo di tempo, in base all’area geografica”. La graduale chiusura del business degli smartphone dovrebbe essere completata entro il 31 luglio prossimo.

Numero tre al mondo

Eppure gli smartphone Lg avevano conosciuto tempi migliori e ancora oggi i prodotti sono popolari negli Stati Uniti (dove marchi cinesi rivali come Oppo, Vivo e soprattutto Huawei e Xiaomi non hanno molta presenza a causa delle travagliate relazioni bilaterali) e in America Latina.

L’azienda sudcoreana era arrivata sul mercato con una serie di innovazioni per telefoni cellulari, comprese le fotocamere ultra grandangolari e, al suo apice nel 2013, era diventato il terzo produttore di smartphone al mondo dietro Samsung e Apple.

I problemi erano cominciati quando i modelli di punta hanno avuto problemi sia software che hardware, ma gli analisti ritengono che il colpo di grazia per i cellulari sia stata la mancanza di velocità nelle strategie di marketing rispetto ai rivali cinesi, che hanno fatto sparire dal mercato molti concorrenti mentre marchi come Nokia, Htc e Blackberry sono stati molto ridimensionati senza  scomparire completamente.

Secondo la società di ricerche di mercato Counterpoint l’attuale quota globale degli smartphone sudcoreani è del 2% circa. Nel 2020, pandemia compresa,  ha spedito 23 milioni di telefoni, contro i 256 milioni di Samsung. In Corea del Sud, i dipendenti della divisione soppressa verranno trasferiti in altre aziende e affiliate di Lg Electronics, mentre negli altri Paesi le decisioni saranno prese localmente. Alcuni esperti che hanno seguito  una videoconferenza di Lg hanno affermato che l’azienda intende conservare  i suoi brevetti tecnologici su 4G e 5G e i ricercatori impegnati a  sviluppare le tecnologie 6G.

Celia Guimaraes @viperaviola

Apple compie 45 anni in mezzo alla ‘guerra dei chip’

Tutta colpa di un semiconduttore: Apple e Intel si sfidano, come vent’anni fa, a colpi di pubblicità. Ma la cosiddetta ‘guerra dei chip’ ha motivazioni complesse e può provocare squilibri mondiali, come osserva nel servizio il coordinatore editoriale di DDay, Roberto Pezzali

 

Ha destato curiosità in Rete un promo di Intel, uno dei più grandi produttori mondiali di semiconduttori, i chip che troviamo ormai dovunque. Una pubblicità comparativa tra Apple e Microsoft, che si rifà a video-parodie di oltre vent’anni fa con lo stesso attore, non più il giovane entusiasta dei prodotti di Cupertino (nata il primo aprile 1976) ma un signore che realisticamente passa alla concorrenza.

 

Una concorrenza che si fa anche a colpi di marketing, ma che nasconde tra le sue pieghe una guerra commerciale – quella dei chip – dai risvolti economici rilevanti a livello mondiale.

La decisione di Apple  di produrre in proprio, dal novembre scorso, gli M1, i chip per MacBook, abbandonando la tradizionale collaborazione con Intel, ha provocato reazioni a catena, dalla stessa Intel, che non è rimasta a guardare, annunciando investimenti per miliardi di dollari, ma anche di Qualcomm.

E anche uno dei più grandi fornitori mondiali di componenti per microchip, la Taiwan Semiconductor Manifacturing (Tsmc), ha chiesto ai propri clienti di accettare un aumento dei prezzi data la necessità di fare investimenti per 100 miliardi di dollari per rafforzare la produzione e sviluppare nuove tecnologie come il 5G, segnala Nikkei Asia.

Non è una notizia da poco

L’azienda taiwanese è fornitrice di tutti i più importanti sviluppatori mondiali di chip, tra i quali proprio Apple, Intel, Qualcomm e Nvidia. Taiwan è inoltre al centro dell’intera catena delle forniture di componentistiche indispensabili perché tutto l’ecosistema digitale possa funzionare.

Nel  mondo intanto si è scatenata una ‘tempesta perfetta’ che ha portato alla carenza di semiconduttori (chip shortage), dovuta a una serie di concause:  pandemia, guerre commerciali, crisi climatiche (un incendio in Giappone e una tempesta di neve nel Texas) e, non ultima, la nave incagliata a Suez, piena di componenti elettronici da consegnare.

I produttori  mondiali non riescono a venire incontro alla domanda in forte crescita, tanto che diverse case automobilistiche sono corse ad accaparrarsi i semiconduttori (una automobile moderna contiene centinaia di chip), ma hanno dovuto comunque rivedere i loro piani, così come tutto il settore dell’elettronica di consumo, dai frigo alle tv.

La concentrazione della produzione di semiconduttori in Asia e, in particolare, a Taiwan, Paese  al centro di contese geopolitiche, non è inoltre da sottovalutare e può spiegare l’iniziativa di diversi Paesi di avviare fabbriche in proprio. In questo quadro si inserisce, secondo gli esperti, la ricerca di autonomia da parte di Apple e anche di Intel, che entro il 2024 avrà due nuovi impianti produttivi in Arizona, per un investimento da 20 miliardi di dollari.

Celia Guimaraes @viperaviola