Coinbase e Wall Street: è tutto oro digitale quel che luccica?

Debutto ‘con il botto’ al Nasdaq per la piattaforma di scambio di criptovalute, ammesse nel ‘salotto buono’ della finanza più tradizionale. Il mercato globale delle valute digitali supera ormai il Pil italiano e c’è chi sostiene che saranno la divisa di scambio corrente della Gen Z. Ma non mancano le incognite

Coinbase Global Inc., la seconda più grande piattaforma di scambio di criptovalute degli Stati Uniti (la prima risulta essere Binance), debutta al Nasdaq e segna una pietra miliare nella storia delle valute virtuali: da tecnologia di nicchia ad asset mainstream.

E’ stata valutata a 381 dollari per azione, per un valore di mercato di 99,6 miliardi di dollari, in rialzo del 31,31% nel suo primo giorno di contrattazioni. Il titolo ha concluso la prima giornata scambi a 328,28 dollari.

Coinbase, fondata nel 2012, dichiara  56 milioni di utenti in tutto il mondo e circa 223 miliardi di dollari di asset, pari all’11,3% della quota di mercato delle criptovalute.

L’arrivo della piattaforma  sulla Borsa di New York (una novità sospesa tra operazione di marketing e innovazione tech) segna una svolta per le criptovalute, ammesse nel salotto buono della finanza tradizionale, che solo pochi anni fa le temeva o snobbava, secondo larga parte delle opinioni di investitori, analisti e autorità monetarie.

Saranno le criptovalute le monete di riferimento della Gen Z, la generazione che usa con disinvoltura strumenti digitali? Ce lo spiega il professor Ferdinando Ametrano, direttore scientifico del Crypto Asset Lab – Dipartimento Business and Law all’università Milano-Bicocca che in questa intervista ci parla del ruolo dei Big della Silicon Valley ma anche dei rischi che le app e servizi per investitori rappresentano in questo momento di ‘hype’:

Celia Guimaraes @viperaviola

Apple compie 45 anni in mezzo alla ‘guerra dei chip’

Tutta colpa di un semiconduttore: Apple e Intel si sfidano, come vent’anni fa, a colpi di pubblicità. Ma la cosiddetta ‘guerra dei chip’ ha motivazioni complesse e può provocare squilibri mondiali, come osserva nel servizio il coordinatore editoriale di DDay, Roberto Pezzali

 

Ha destato curiosità in Rete un promo di Intel, uno dei più grandi produttori mondiali di semiconduttori, i chip che troviamo ormai dovunque. Una pubblicità comparativa tra Apple e Microsoft, che si rifà a video-parodie di oltre vent’anni fa con lo stesso attore, non più il giovane entusiasta dei prodotti di Cupertino (nata il primo aprile 1976) ma un signore che realisticamente passa alla concorrenza.

 

Una concorrenza che si fa anche a colpi di marketing, ma che nasconde tra le sue pieghe una guerra commerciale – quella dei chip – dai risvolti economici rilevanti a livello mondiale.

La decisione di Apple  di produrre in proprio, dal novembre scorso, gli M1, i chip per MacBook, abbandonando la tradizionale collaborazione con Intel, ha provocato reazioni a catena, dalla stessa Intel, che non è rimasta a guardare, annunciando investimenti per miliardi di dollari, ma anche di Qualcomm.

E anche uno dei più grandi fornitori mondiali di componenti per microchip, la Taiwan Semiconductor Manifacturing (Tsmc), ha chiesto ai propri clienti di accettare un aumento dei prezzi data la necessità di fare investimenti per 100 miliardi di dollari per rafforzare la produzione e sviluppare nuove tecnologie come il 5G, segnala Nikkei Asia.

Non è una notizia da poco

L’azienda taiwanese è fornitrice di tutti i più importanti sviluppatori mondiali di chip, tra i quali proprio Apple, Intel, Qualcomm e Nvidia. Taiwan è inoltre al centro dell’intera catena delle forniture di componentistiche indispensabili perché tutto l’ecosistema digitale possa funzionare.

Nel  mondo intanto si è scatenata una ‘tempesta perfetta’ che ha portato alla carenza di semiconduttori (chip shortage), dovuta a una serie di concause:  pandemia, guerre commerciali, crisi climatiche (un incendio in Giappone e una tempesta di neve nel Texas) e, non ultima, la nave incagliata a Suez, piena di componenti elettronici da consegnare.

I produttori  mondiali non riescono a venire incontro alla domanda in forte crescita, tanto che diverse case automobilistiche sono corse ad accaparrarsi i semiconduttori (una automobile moderna contiene centinaia di chip), ma hanno dovuto comunque rivedere i loro piani, così come tutto il settore dell’elettronica di consumo, dai frigo alle tv.

La concentrazione della produzione di semiconduttori in Asia e, in particolare, a Taiwan, Paese  al centro di contese geopolitiche, non è inoltre da sottovalutare e può spiegare l’iniziativa di diversi Paesi di avviare fabbriche in proprio. In questo quadro si inserisce, secondo gli esperti, la ricerca di autonomia da parte di Apple e anche di Intel, che entro il 2024 avrà due nuovi impianti produttivi in Arizona, per un investimento da 20 miliardi di dollari.

Celia Guimaraes @viperaviola

Vicini, sempre connessi: online anche i negozi di quartiere

Il ministero per l’Innovazione e la tecnologia fa da tramite per condurre anche le più piccole realtà artigianali e commerciali verso la grande vetrina offerta dalla digitalizzazione

Aiutare piccoli commercianti e artigiani, la spina dorsale delle imprese italiane, a utilizzare le cosiddette “piattaforme abilitanti” del commercio online e servizi di trasporto e consegna adatti alle proprie esigenze della vendita al dettaglio è una necessità per loro e ora una missione per il ministero dell’Innovazione.

Torna, dopo la prima edizione ad aprile, il programma  “Vicini e connessi – Il Digitale per l’economia locale”, nell’ambito del progetto “Solidarietà Digitale”,  promosso dal Dipartimento per la Trasformazione digitale, dedicato alle piccole realtà locali, con un sito dedicato all’iniziativa –  www.solidarietadigitale.agid.gov.it –  con tutte le informazioni disponibili per partecipare.

Avviato in primavera, nella prima fase della pandemia, ‘Solidarietà digitale’ ha già messo in contatto cittadini e aziende disposte a fornire gratuitamente servizi innovativi per cittadini di ogni età oltre che per bambini e ragazzi impegnati negli studi.

Paola Pisano: solidali grazie al digitale

“Questo progetto  è un invito alle aziende del digitale e di settori collegati ad  aiutare i piccoli esercizi commerciali affinché possano dispiegare le proprie capacità di azione anche in una fase di emergenza”, ha detto la ministra Paola Pisano.

“Negozi e botteghe che sono una ricchezza del tessuto commerciale e sociale italiano stanno soffrendo in modo particolare le conseguenze del Covid-19 e delle misure necessarie per contrastare la diffusione del virus. E’ il momento di essere solidali anche grazie al digitale, ma non occorrono soltanto ammirevoli e benvenuti gesti di generosità. Dobbiamo fare il possibile per trasformare una fase di difficoltà nella premessa per il suo opposto: un adeguamento del nostro Paese a un’era di nuove forme di lavoro, comunicazione, studio e capacità di estendere e sviluppare benessere”.

Seconda fase: esercenti di quartiere 

L’emergenza del Covid-19 ha limitato i movimenti di molte persone e ha reso evidente come il commercio elettronico possa diventare un alleato prezioso di piccoli artigiani, commercianti e anche dei consumatori. In questa nuova campagna l’attenzione si sposta sugli esercenti locali e di quartiere, per cui la tecnologia digitale può ridurre l’impatto economico causato dall’emergenza sanitaria ed essere impiegata con vantaggi per la collettività anche in seguito.

Vantaggi del commercio online

L’e-commerce è un fenomeno che durante la pandemia si sta sviluppando notevolmente. Secondo una indagine del Consorzio Netcomm, il centro digitale italiano per l’evoluzione del commercio online,  partner del progetto, nei primi cinque mesi dell’anno sono stati due milioni i consumatori che nel nostro Paese hanno effettuato acquisti online.  Nel 2019 erano risultati in totale 700 mila, meno della metà.

Piccoli e grandi fornitori di servizi entrano in gioco

Google nel suo blog ha annunciato l’adesione all’iniziativa Vicini e Connessi, mettendo  a disposizione dei commercianti strumenti per farsi trovare online con tool e servizi nel catalogo di Solidarietà Digitale. E’ uno dei grandi player del digitale che hanno aderito all’iniziativa, ma ci sono molti altri, anche piccoli fornitori di servizi, pronti a dare una mano perché l’iniziativa diventi sempre più diversificata e inclusiva.

Celia Guimaraes @viperaviola

Spot, il cane-robot in missione a Chernobyl

Lo abbiamo visto giocare, salire le scale, aprire porte, caricare lavastoviglie, fare la guardia. Ora Spot, il cane-robot, è diventato grande e ha compiti importanti

Spot, il famoso cane robot di Boston Dynamics, è in missione a Chernobyl, per misurare i livelli di radiazione nell’ex centrale nucleare, indimenticabile luogo di uno dei disastri nucleari tra i più gravi della storia.

Adesso Spot ‘scodinzola’ nel sito e, grazie ai dati raccolti dai suoi sensori, i ricercatori dell’Università di Bristol potranno creare una mappa in 3D del calore e della distribuzione delle onde elettromagnetiche pericolose tutt’ora presenti in zona.

Perché a oltre trent’anni dal disastro, avvenuto nell’aprile 1986, Chernobyl resta una città fantasma, dove vagano cani randagi e rari turisti interessati a vedere da vicino la ‘location’ della catastrofe e della nota serie tv di Hbo, che racconta come vigili del fuoco e primi soccorritori sacrificano se stessi per contenere le conseguenze dell’evento. E dove ancora oggi, i pericoli per la presenza umana non sono venuti meno.

Spot è al lavoro nella zona dell’Unità 4, dove ebbe inizio la perdita del reattore nucleare, a seguito del surriscaldamento. Il robot può indugiare senza rischi sia all’interno che all’esterno del sarcofago, la struttura in cemento armato costruita appositamente, anni dopo, per contenere le emissioni di materiale radioattivo.

Non per gioco ma per lavoro

Spot non è un surrogato di animale domestico o un giocattolo: con le sue quattro zampe, può correre, arrampicarsi ed evitare gli ostacoli, vedere a 360 gradi ed eseguire una serie di compiti programmati come, appunto, le ispezioni a Chernobyl, ma anche in luoghi potenzialmente pericolosi come cantieri e miniere.

Da quest’anno, Spot è stato disponibile per istituzioni, sviluppatori e accademici, che possono acquistarlo in un kit e assemblarlo. A Singapore, è già lavoro nei parchi per invitare i visitatori a rispettare la distanza di sicurezza per contrastare la diffusione del Covid 19.

epa08411439 A handout photo released by the Government Technology Agency of Singapore (GovTech) of a four-legged robot named Spot which broadcasts a recorded message to remind people to observe safe distancing measures in the Bishan-Ang Mo Kio park in Singapore, 08 May 2020 (issued 09 May 2020). The robot is on a two-week trial from 08 May 2020 to assist parks with safe distancing measures to prevent the spread of Covid-19. EPA/GOVTECH HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

L’azienda che lo produce è uno spin off del celebre Massachussetts Institute of Technology, l’istituto di tecnologia più importante al mondo. Nata nel 1992, ha avuto investimenti importanti da colossi del tech  a partire da Google X, tra 2013 e 2017, e  dalla giapponese Softbank Group, che è ancora proprietaria dell’azienda.

A novembre la stampa tech ha diffuso notizie secondo cui Softbank Group sarebbe in trattative per vendere Boston Dynamics Inc. alla casa automobilistica sudcoreana Hyundai Motor Co., per una transazione -non confermata dalle parti –  del valore di un miliardo di dollari.

Il cane robot ha fatto un ingresso trionfale al Web Summit di Lisbona nel novembre 2019, percorrendo il corridoio centrale dell’arena tra una folla di 60 mila giovani entusiasti. Nell’occasione, il Ceo di Boston Dynamics ha raccontato la sua evoluzione, durata 5 anni, fino alla versione finale ora disponibile al costo di circa 70 mila euro.

 

 

 

Spot nel frattempo  è diventato talmente famoso da ispirare, si dice, una delle puntate della quarta serie Netflix Black Mirror, ‘Metalhead’. Un protagonista non troppo rassicurante, è vero. Ma ha dato lo spunto anche ai nuovissimi piccoli robot, creati dagli studenti del Mit, che giocano a pallone e fanno le capriole… in attesa di diventare grandi.

Celia Guimaraes @viperaviola

What Went Wrong: la caduta nella polvere di Quibi, la Startup di Hollywood

Nata come principessa delle favole del cinema, è fallita in meno di sei mesi come la più banale delle startup della Silicon Valley. La velocissima ascesa e caduta di Quibi, piattaforma innovativa su cui grandi nomi del tech hanno investito due miliardi di dollari

(quibi.com)

(quibi.com)

Quibi significa quick bites – morsi veloci – e voleva essere una formula innovativa nell’affollato panorama dei servizi di streaming.  Lanciata ad aprile, era una piattaforma pensata apposta per ‘mobile’, con un catalogo di video brevi, dalla durata tra sette e dieci minuti. Abbonamenti mensili a 8 dollari, senza pubblicità, 5 dollari con gli spot. E con un target di pubblico ben preciso: giovane, pronto a fruire dei video ‘on the go’, esclusivamente su smartphone, in orizzontale e verticale.

Potenza di Hollywood

Jeffrey Katzenberg (Ansa/EPA/JULIEN WARNAND)

Jeffrey Katzenberg (Ansa/EPA/JULIEN WARNAND)

L’idea era stata concepita da Jeffrey Katzenberg, che ha dalla sua un curriculum di peso: per dieci anni presidente dei Walt Disney Studios (1984 al 1994), è considerato fautore di successi come La sirenetta, La bella e la bestia, Aladino, il Re leone, poi co-fondatore e Ceo della DreamWorks Animation, dove ha tenuto a battesimo film d’animazione come Shrek, Madagascar, Kung Fu Panda, Monsters versus Aliens.

Per il lancio Quibi, Katzenberg è stato chiamato da tutte le principali reti tv americane, e ha definito la piattaforma un  ‘safe harbor’ una sorta di casa felice – e legalmente protetta – per i creativi, dove i filmmaker avrebbero potuto portare short movie e shows, conservandone però i diritti d’autore sulle opere, una concessione non da poco nell’ambiente.

Una formula seducente, che aveva attirato – e poi deluso – anche i grandi network come Nbc e Cbs, che avevano subito cominciato a produrre news in formato ‘Quick bites’. Potenza del nome Katzenberg, che a Hollywood non è proprio l’ultimo arrivato.

What went wrong?

“La chiusura anticipata di un progetto come Quibi racconta l’evoluzione dei consumi digitali dei pubblici e di come sia difficile intercettare l’attenzione in questo tempo necessariamente casalingo ma multitasking”, osserva Giampaolo Colletti, giornalista ed esperto di media digitali.

“La virata dell’industria dell’audiovisivo dal grande schermo a quello miniaturizzato degli smartphone non ha sortito gli effetti sperati. Quibi avrebbe dovuto rappresentare una tv miniaturizzata fruibile esclusivamente sui dispositivi mobili. Una tv da sgranocchiare con ‘piccoli bocconi’, questo il senso del nome, con un servizio di streaming a pagamento e col coinvolgimento delle star di Hollywood: Jennifer Lopez, Idris Elba, Bill Murray, Sophie Turner, Steven Spielberg, Chrissy Teigen. Ma di fatto è un altro effetto collaterale digitale dello tsunami legato alla pandemia: Quibi avrebbe dovuto allietarci in fila da Starbucks o in metropolitana, ma nel frattempo il mondo è cambiato totalmente e la startup si è trovata a competere nel salotto di casa coi colossi di Sky, Amazon o Disney+”, conclude Colletti.

Se non sei resiliente e flessibile

Quibi aveva inoltre un handicap in più che si è rivelato fatale durante la pandemia: le piattaforme di streaming sono particolarmente interessanti proprio perché versatili, multidevice, consentono, cioè, la fruizione dei contenuti senza soluzione di continuità, da smart tv a pc a tablet a smartphone, cosa che Quibi non prevedeva.

Disney è stata più avveduta: i suoi servizi online, Disney+, Hulu ed Espn+, sono stati il vero faro luminoso durante la pandemia. Il coronavirus ha costretto alla  chiusura i parchi tematici di Walt Disney e appiattito l’attività cinematografica, con il pubblico tenuto lontano dalle sale. Le reti via cavo, una volta l’attività più redditizia di Disney, continuano a perdere abbonati. Quindi, investire in streaming online si è rivelata una scelta vincente e resiliente.

Due miliardi andati in fumo

Quibi aveva raccolto quasi due miliardi di dollari sul mercato, con investitori del calibro di JP Morgan, Alibaba e la stessa Disney. Ha gettato la spugna dando la colpa, in parte, alle sfide derivanti dalla pandemia di Covid-19. Ma non è questo l’unico motivo della sua sconfitta. Per Marina Pierri, direttrice artistica del Festival delle storie Tv, ad essere sbagliata era proprio la scelta del catalogo, “poco interessante e lontano dal gusto del pubblico più giovane”, osserva.

Cala il sipario sulla Startup nata a Hollywood

Ad ottobre, in una lettera aperta agli azionisti, Katzenberg diceva di voler vendere contenuti e risorse tecnologiche di Quibi per restituire il denaro a chi aveva dato fiducia al progetto acquistandone quote. In cassa è rimasto un ‘tesoretto’ da 350 milioni di dollari, che andranno però agli investitori. I creativi, che avevano creduto nel ‘safe harbor’, possono attendere.

Celia Guimaraes @viperaviola